Cappella Donati Sacconi

Cappella Donati Sacconi

Giovanni Battista Giovenale

Cappella Donati Sacconi (Giovanni Battista Giovenale) 

La Cappella Donati-Sacconi (post 1908), opera di Giovan Battista Giovenale, rappresenta un vero e proprio omaggio all’attività professionale dell’architetto in essa sepolto. La costruzione presenta notevoli richiami all’arte di Giuseppe Sacconi, e in particolare alla sua opera più importante, il Vittoriano.

L’attività professionale di Giuseppe Sacconi (Montalto-Ascoli Piceno 1854 – Collepigliato-Pistoia 1905) ruotò praticamente tutta attorno alla costruzione del Monumento a Vittorio Emanuele II, che lo occupò dal 1882, anno del concorso nazionale per il monumento, fino alla morte, avvenuta nel 1905 senza che potesse vedere completata l’opera.
Per la realizzazione del controverso edificio, nato per celebrare il Re che aveva contribuito in prima persona al processo di unificazione dell’Italia, sulla base di una legge del 1878 che stanziava i fondi necessari, fu bandito un concorso mondiale che riscosse molte adesioni; successivamente, sulla base anche del fatto che sembrava più logico affidare la celebrazione del Re d’Italia ad un suo suddito piuttosto che ad uno straniero, ebbe luogo un concorso nazionale vinto dal progetto di Sacconi.
Le prescrizioni del concorso imponevano che l’edificio si localizzasse sull’altura settentrionale del Campidoglio, in asse con Via del Corso, e che fosse di dimensioni tali da coprire la vista degli edifici retrostanti e l’attigua chiesa dell’Ara Coeli. Per la costruzione del monumento, quindi, interi quartieri medievali furono rasi al suolo e vennero distrutti il convento dell’Ara Coeli, la torre di Paolo III e il viadotto che la univa a Palazzetto Venezia. Di fronte all’importanza del re, che doveva essere celebrata con il monumento,  le proteste degli archeologi furono ignorate, anche perché l’intera operazione godeva del sostegno ideologico di Camillo Boito, uno dei protagonisti del dibattito contemporaneo sullo stile da adottare per la nuova Capitale e membro della commissione del concorso.

Giuseppe Sacconi, grande studioso di monumenti dell’antichità, in particolar modo della Roma imperiale, si ispirò all’Altare di Pergamo per immaginare uno spazio sopraelevato, una nuova piazza nel cuore di Roma, pensata come un foro aperto ai cittadini. Successivi studi sull’architettura romana, svolti dall’architetto nell’incessante sforzo di non tradire in nessun modo l’ispirazione dell’edificio all’antichità, portarono modifiche in corso d’opera al progetto. A queste si aggiunsero le varianti imposte da problemi tecnici, verificatisi sia per l’inaspettata natura argillosa del colle, che costrinse a consolidamenti e scavi più profondi, sia per la friabilità del marmo Botticino di Brescia, meno resistente del locale travertino e imposto, forse non a caso, come materiale costitutivo dalla legge del 1878, promulgata proprio dal ministro Zanardelli, originario della stessa zona. Alla morte dell’architetto, la direzione dei lavori fu affidata a Manfredo Manfredi, Pio Piacentini e Gaetano Koch, che lo completarono nel rispetto dei principi espressi nel progetto.Nel 1921 il Milite Ignoto è stato tumulato nella cripta a lui dedicata sotto l’Altare della Patria; nel periodo fascista tutta l’area di Piazza Venezia venne utilizzata come sfondo per le manifestazioni di regime e subì altre modifiche urbanistiche che provocarono un ulteriore isolamento del monumento rispetto al contesto, intervenendo con pesanti distruzioni proprio nell’area che aveva costituito la fonte di ispirazione dell’autore.

Giuseppe Sacconi a Roma è autore anche del Palazzo delle Assicurazioni Generali (1902-06), sempre sulla stessa piazza, in cui si adeguò al contesto riproponendo le linee geometriche e la volumetria di Palazzo Venezia, e della tomba di Umberto I al Pantheon.
Al Verano, Sacconi realizzò la tomba Meredith de Thomar (Pincetto vecchio, riquadro 37), in uno stile ispirato all’arte medievale, riproposto in maniera coerente e dettagliata, con una particolare attenzione alla qualità esecutiva dei dettagli.

Giovanni Battista Giovenale (Roma, 1848 – 1934) fu architetto con uno stile improntato, generalmente, alla riscoperta delle tradizioni architettoniche del passato, come tipico del periodo storico in cui egli si trovò ad operare. Egli fu tra i primi, però, a cercare fonti di ispirazione anche nell’architettura del Seicento, seppure filtrata alla maniera “povera” del barocchetto romano di fine Ottocento, dove muratura e stucco sostituivano per necessità economiche i laterizi e i marmi, per esempio, nel Villino Folchi della tenuta di Villa Ludovisi, realizzato dall’architetto nel 1886-87, dove rese omaggio all’architettura del primo Seicento, o nella eclettica Villa Boncompagni Ludovisi (1901-03). Con una ispirazione bizantineggiante, invece, lo stesso architetto aveva realizzato la cripta di Santa Cecilia a Trastevere (1899-1901), modificando strutture preesistenti.

Giovenale ricoprì varie cariche importanti, fra cui quella di Ministro dei Lavori Pubblici (1867), di presidente dell’Accademia di San Luca (1911-12) e di Architetto della Fabbrica di San Pietro, in tarda età. Soprattutto, però, fu presidente della Associazione artistica fra i Cultori di architettura, fondata a Roma nel 1890 con lo scopo di sorvegliare i progetti di trasformazione della Capitale, a tutela delle ragioni estetiche e archeologiche. Tale associazione si adoperò, per esempio, per la tutela dell’Isola Tiberina e per la ricostruzione del Palazzetto di Venezia e del porto di Ripetta in altro luogo. Si interessò anche di stilare un inventario dei monumenti di Roma, da consegnare all’amministrazione perché ne tenesse conto nella stesura dei regolamenti edilizi e per eventuali modifiche ai piani regolatori. Della commissione fece parte anche Camillo Boito, che si occupò, insieme a Giovenale, della creazione di un sistema di analisi degli edifici, oggi unanimemente giudicato opportuno, che si basasse non solo sullo studio dei documenti, ma anche su una accurata osservazione delle murature, come materiali e come tecnica di esecuzione, in una sorta di stratigrafia verticale paragonabile a quella orizzontale utilizzata dagli archeologi.

L’architetto fu autore, in questo spirito, del restauro stilistico di Santa Maria in Cosmedin (1894-99), in cui dimostrò una forte sensibilità nei confronti del vissuto storico dell’edificio, restituendo il monumento, sulla base anche di un accurata ricerca documentaria, non come avrebbe dovuto essere ma come realmente si era presentato in occasione della riconsacrazione del suo altare maggiore nel 1123.

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