Vecchio Reparto, Riquadro 12
Nacque a Roma il 13 gennaio 1886, figlio di Luigi e Anna Maria Antonelli, crebbe in ambienti di interessi assai lontani dal teatro. Il padre era un fabbro e il nonno un falegname, botteghe entrambi presso le quali lavorò fin da bambino. Rimase un autodidatta, guidato all’arte solo dal suo forte istinto. A bottega dal nonno improvvisava scenette e monologhi che recitava a un pubblico immaginario mostrando i tratti premonitori e illuminanti di quelle componenti della sua arte che si sarebbero rivelate di lì a poco. Mandato a scuola se allontana fino a che venne chiuso ingiustamente in riformatorio, all’età di 13 anni, quando venne accusato di essere colpevole del ferimento di un suo compagno di giochi all’Orto Botanico. Il suo vero esordio teatrale lo fece a 15 anni in un vecchio granaio municipale a Campagnano presso Roma dove fu assunto come macchiettista col nome di Ettore Loris da un impresario di pochi scrupoli. Deluso ma non scoraggiato debuttò di fronte a un grande pubblico al caffè-concerto Gambrinus, un baraccone presso piazza dei Cinquecento a Roma, il cui ingresso costava 25 centesimi, compresa la consumazione. Fu a quella dura scuola, in quei locali pieni di fumo e tenuti d’occhio dalla polizia, recitando, sgambettando e cantando per quel pubblico sguaiato, esigente e spesso crudele, che cominciarono a venir fuori dal fondo convenzionale della vecchia macchietta, i primi numeri di un autentico repertorio petroliniano: Canzona guappa, La Caccavella, la Sonnambula, Fortunello, Archimede, il bell’Arturo, prima caricatura del beau decadente e dannunziano, dal quale doveva svilupparsi in seguito il più complesso e spietato Gastone.
La figura dell’attore popolare si delineava in Italia con la diffusione dei cafè-chantant che, accanto alla figura del viveur, il frequentatore assiduo di questi locali dell’alcol e del fumo, dei tavoli da gioco e delle chanteuses, gettava le caratteristiche basilari per la nascita del tipico Varietà. L’attore popolare punta sulla pratica degli sketch veloci e sull’eterogeneità dei linguaggi (lingua, dialetto, anti-lingua, mimica, gesto, canto e ballo) trovandosi uno stile personalissimo che usa tutto il corpo, esplicitandosi in una mimica facciale pesantemente caricaturale. Petrolini rinnova dalle fondamenta l’arte del Varietà con l’inversione dei tipi, l’eccesso della caratterizzazione, l’automatismo dei gesti, la solitudine dell’esibizione. Distrugge le comuni gerarchie del teatro per diventare voce solitaria, attraverso l’eliminazione della spalla. Si addobba, metaforizza il corpo, facendolo parlare con pari eloquenza delle parole.
La vera scoperta avvenne fuori d’Italia. Nel 1907 l’attore s’imbarcò per l’Uruguay, impegnato da un imprenditore sudamericano che lo aveva visto lavorare in un teatro di Genova, alla prima replica il successo diventò strepitoso e lo accompagnò in tutto il giro attraverso l’Argentina e il Brasile. Nel giro di pochi anni, critici, romanzieri, poeti, saggisti si interessarono al personaggio. I Salamini (1908) e Fortunello (1915) costituiscono l’apice del suo rovesciamento dei canoni; massacratore di idoli e immagini consacrate dalla tradizione e dalla convenzione, Petrolini irrompeva travolgendo con acredine e ferocia sconvolgenti, diventando nella sua dissacrante irrisione del perbenismo sociale, l’idolo dei futuristi che con la stessa violenza si muovevano su identiche posizioni, accomunati dalle stesse mire intellettuali di metalinguaggio.
Allo scoppio della guerra (1915) l’attore sentì di essere ormai maturo per lo spettacolo organico, basato su un regolare copione e mise insieme una compagnia che debuttò al Teatro Cines (l’attuale Eliseo) con la rivista Venite a sentire, cui fecero seguito Zero meno zero di L. Folgore e Contropelo di T. Smith. Cominciò con dei bozzetti (47, morto che parla, E’ arrivato l’accordatore, Nerone, Amori de notte), che segnano il passaggio dal “numero” e dalla macchietta dell’originario spettacolo petroliniano, alla commedia vera e propria. Scrissero per lui, o gli affidarono i loro lavori, autori già rappresentati dalle compagnie regolari (A. Testoni, G. Civinini, S. Gotta, L. Chiarelli, R. Simoni, F. M. Martini, U. Ojetti, G. Rocca, A. Colantuoni, A. Fraccaroli), offrendo l’occasione di provare ai critici più esigenti quali fossero le sue reali possibilità in questo campo: Notturno di Civinini, il Garofano di Ojetti e soprattutto Cortile di Martini, rivelarono l’aspetto imprevedibile della sua natura di attore. Ma il vero personaggio venne fuori quale interprete delle sue commedie come in Mustafà, non tutto di sua mano (rifacimento di una commedia di due autori argentini, A. Discépolo e R. J. De Rosa), anche se da sempre considerato suo per l’impeto ricreativo dell’ interpretazione. La commedia Gastone, punto finale d’arrivo dell’interessante evoluzione del personaggio, è invece tutto di sua mano. Così Benedetto fra le donne, dove Petrolini ha fatto un po’ di autobiografia col personaggio di un bulletto romano aggressivo, fantasioso e bravo ragazzo. In Chicchignola, del 1931, giudicata da molti la migliore delle sue commedie, si avverte l’influsso di Pirandello di Berretto a sonagli, così come nell’adattamento che lo stesso scrittore fece di Lumìe di Sicilia cambiato poi nel titolo Agro di limone, in cui il protagonista non arrivava dalla Sicilia ma dall’Abruzzo.
Dopo l’occasionale partecipazione a due film muti (Petrolini disperato per eccesso di buonumore del 1913 e il lungometraggio drammatico Mentre il pubblico ride, 1920) l’artista debuttò nel cinema all’inizio del sonoro, nel momento cioè in cui i più popolari interpreti della scena venivano chiamati dinnanzi alla macchina da presa a titolo sperimentale. Con generoso entusiasmo l’attore si sottopose alla prova, per la verità non scevra di incognite in tre film sufficienti a tramandarne a i posteri l’inconfondibile stile: Cortile (1930), Medico per forza (1931) ma soprattutto Nerone di A. Blasetti (1930), registrazione dei numeri più celebrati del suo repertorio (da Fortunello a Gastone).
Della sua arte non danno che un pallido riflesso le autobiografie e i repertori da lui stesso curati (Ti ha piaciato?, 1915, Modestia a parte, 1932, Un po’ per celia un po’ per non morir, 1936), segno della sua poliedrica personalità, colta e istintiva, aulica e popolare. Ammalato di angina, muore il 29 giugno 1936 a Roma.
La sua battuta, forse l’ultima: «Che vergogna!...Mori’ a cinquant’anni», riferita a se stesso, rivela la stretta vicinanza tra la risata irridente del suo teatro e uno spettro di morte che sempre lo accompagnava.
La tomba dell’attore, su concessione gratuita del Comune di Roma, si trova al riquadro 12 del Vecchio Reparto. Lo scultore K. Todoroff nel 1931 ne eseguiva il busto scolpito che lo ritrae nell’inconfondibile fisionomia, carica di espressività. Completa l’opera, su base in granito, il capitello di ordine corinzio, di spoglio, proveniente dall’Antiquarium comunale.